Oltre ai geni BRCA1 e BRCA2, c'è una nuova spia che consente di individuare le donne con maggior rischio di sviluppare il tumore al seno. Si tratta del gene PALB2 che, se mutato, può aumentare le probabilità di sviluppare un carcinoma della mammella fino a otto-nove volte rispetto alla popolazione che non porta tale mutazione. È quanto chiarisce uno studio internazionale a cui hanno partecipato ricercatori sostenuti da AIRC e i cui risultati sono stati pubblicati sull'importante New England Journal of Medicine.
Da diversi anni le mutazioni dei geni BRCA1 e BRCA2 sono impiegate come indicatori di rischio per l'insorgenza del tumore della mammella oltre che dell'ovaio. Ma la ricerca aveva osservato che anche le portatrici di varianti del gene PALB2 potevano essere più predisposte a sviluppare la malattia.
«Il nostro lavoro ha quantificato l' aumento del rischio», spiega Paolo Radice, direttore dell'Unità di "Medicina predittiva: Basi molecolari del rischio genetico e test genetici" dell'Istituto nazionale tumori di Milano. Lo studio ha analizzato i dati di 154 famiglie con mutazioni del gene PALB2, un gene importante per i processi di riparazione del DNA che contrastano la formazione dei tumori. I nuclei familiari, identificati da 14 gruppi di ricerca in otto Paesi, non erano portatori di mutazioni dei geni BRCA1 e BRCA2 e aver registrato al proprio interno almeno un caso di tumore al seno in un soggetto portatore di una mutazione "inattivante" di PALB2.
«Attraverso l'osservazione di queste famiglie abbiamo potuto calcolare il rischio relativo, ovvero rispetto alla popolazione generale, associato alla presenza di mutazioni in PALB2 e verificare che questo cambia nelle diverse fasce d'età» prosegue Radice. «Se c'è la mutazione, sotto i 40 anni il rischio relativo è di otto-nove volte maggiore rispetto al resto della popolazione e di sei-otto voltre tra i 40 ed i 60 anni. Oltre questa età il rischio scende, ma è pur sempre cinque volte superiore a quello della popolazione generale».
«Va precisato comunque che queste mutazioni si trovano solo in una piccola percentuale di donne a rischio e la loro presenza non equivale alla certezza di ammalarsi» conclude Paolo Peterlongo, dell'IFOM di Milano, coordinatore del contributo italiano alla ricerca: «La mutazione indica solo un rischio aumentato a fronte del quale possono essere considerati interventi che vanno da un monitoraggio attento e continuo volto alla diagnosi precoce, alla farmacoprevenzione (ancora in fase di sperimentazione) fino alla mastectomia bilaterale profilattica, cioè l'intervento diventato noto alla maggioranza dell'opinione pubblica, dopo che vi si è sottoposta Angelina Jolie».