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   Il Punto

giovedì 9 aprile 2015

Test genetici per diagnosi e terapia oncologica


La genesi del cancro è legata a mutazioni a carico del DNA. La maggioranza di queste mutazioni genetiche si sviluppa e si accumula nel corso della vita di un individuo, mentre una piccola parte, il 5-10% [1], viene ereditata secondo leggi mendeliane e determina quindi tumori ereditari. La scoperta di una base genetica del cancro è stata possibile grazie allo studio dell’intero genoma umano e alla disponibilità di tecnologie avanzate che hanno permesso l’associazione di specifiche alterazioni geniche e conseguente patologia neoplastica.

I principali bersagli delle mutazioni sono i geni coinvolti nella trasformazione tumorale della cellula, essenzialmente appartenenti a 3 classi:

  1. proto-oncogeni: geni che promuovono la crescita cellulare;
  2. oncosoppressori: geni che inibiscono la crescita della cellula e regolano la morte cellulare programmata (apoptosi);
  3. riparatori: geni coinvolti nella riparazione del DNA.

I proto-oncogeni funzionano prevalentemente nella vita embrionale o in tessuti in cui sia richiesta un’intensa proliferazione cellulare: in seguito a mutazioni conferiscono alla cellula la capacità di proliferare in modo incontrollato [2]. Essi hanno un carattere dominante per cui la mutazione di un singolo allele è sufficiente a trasformare la cellula da normale a neoplastica.

Gli oncosoppressori, invece, codificano per proteine che inibiscono la replicazione cellulare: una loro mutazione ne determina quindi la mancata soppressione. Hanno un carattere recessivo e seguono l’ipotesi del doppio colpo proposta da Knudson [3,4]: la prima mutazione avviene nella linea germinale (primo colpo), la seconda ha luogo invece nel corso della vita dell’individuo nella linea somatica, determinando la perdita di funzionalità soppressiva e l’effetto trasformante cellulare.

È chiaro quindi che per l’instaurarsi del quadro cellulare neoplastico non è sufficiente l’alterazione di uno solo dei geni sopra descritti poiché il processo di carcinogenesi è multifasico e richiede l’accumulo di più mutazioni a carico di diversi geni [5].

Dal momento che la carcinogenesi è un processo eterogeneo che coinvolge un gran numero di geni, ci si è concentrati sullo studio di mutazioni a carico di geni maggiormente associati a specifiche neoplasie, andando a valutarne la penetranza. La penetranza è la probabilità che un individuo con un dato genotipo manifesti il fenotipo o carattere corrispondente; tale probabilità è data dal rapporto tra la percentuale di persone che esprimono il fenotipo solitamente associato alla mutazione e il numero complessivo delle persone che geneticamente portano la mutazione. Quando l’associazione tra genotipo mutato di un carattere e il suo fenotipo porta sistematicamente a una condizione patologia, in tutti i soggetti esaminati, il carattere è caratterizzato da una penetranza completa. In questi casi, data una mutazione, l’individuo avrà una probabilità del 100% di manifestare il quadro patologico corrispondente (per esempio sindrome di Marfan, corea di Huntington). Poiché le neoplasie sono patologie multifattoriali, presentano una penetranza incompleta (minore del 100%). Di conseguenza, attraverso studi di popolazione, bisogna andare alla ricerca di geni che possiedono la più alta penetranza possibile in modo da utilizzarli come maker molecolari sfruttabili in test genetici.

Per identificare le specifiche caratteristiche genetico-molecolari alla base del cancro, per la diagnosi, la prognosi e le decisioni terapeutiche è possibile avvalersi dei test genetici molecolari, che rilevano mutazioni ereditarie, acquisite e le alterazioni citogenetiche che costituiscono marcatori specifici di patologia.

La scoperta delle sindromi ereditarie di cancro, i tumori ereditari, è avvenuta grazie allo studio e alla ricerca di specifiche mutazioni in famiglie con maggiore ricorrenza di un determinato tipo di neoplasia, determinando lo sviluppo di test genetici specifici. È necessario precisare il fatto che questo tipo di mutazione non determina di per sé il tumore, ma una suscettibilità specifica, pertanto i fattori ambientali svolgono in questi casi un ruolo centrale.


Le mutazioni ereditarie che colpiscono gli oncogeni sono inusuali perché, provocando la perdita del controllo sulla crescita cellulare, esse sarebbero letali già durante l’embriogenesi, portando alla cessazione spontanea della gravidanza.

La maggior parte delle sindromi ereditarie di cancro può invece riguardare mutazioni degli oncosoppressori, poiché esse hanno, solitamente, un carattere autosomico dominante per cui, in un individuo, per la predisposizione al cancro è sufficiente la presenza di un solo allele mutato (condizione di eterozigosità) [6].

Le forme di predisposizione genetica al tumore ereditario sono relativamente rare e possono riguardare tumori comuni come quelli del colon [7], della mammella [8] e dell’ovaio [9].

Un eclatante esempio riguarda i geni BRCA: tali geni sono oncosoppressori e una loro mutazione porta a un aumento del rischio di sviluppare una neoplasia, in particolare del 65-85% per il cancro mammario e del 39-46% per il cancro ovarico in caso di mutazione in BRCA1 e del 45-85% e del 10-27%, rispettivamente, per mutazioni in BRCA2 [10,11].

Il cancro colon-rettale ereditario non poliposico o sindrome di Lynch è causato, invece, dalla mutazione in eterozigosi di almeno uno dei geni coinvolti nel meccanismo del mismatch repair (riparazione dell’appaiamento errato), ovvero il gene MSH2 (per il 60% dei casi) e il gene MLH1 (per il 30%) [12,13].

La poliposi adenomatosa familiare rappresenta un’altra forma di tumore ereditario ed è associata principalmente alla mutazione del gene oncosoppressore APC (adenomatous polyposis coli). Nei soggetti con questo tipo di alterazione già in età precoce (mediamente intorno ai 16 anni di età) [14] compaiono polipi colon-rettali: si può evincere quindi che la penetranza di mutazioni del gene APC è molto elevata, maggiore del 90%, e, a causa della rapida crescita delle lesioni polipomatose, in assenza di adeguate misure di profilassi la comparsa del cancro è inevitabile.

La neoplasia multiendocrina di tipo 2 (MEN 2) rappresenta una sindrome neoplastica neuroendocrina con carattere autosomico dominante a penetranza incompleta ed è associata a carcinoma midollare della tiroide, feocromocitoma e iperparatiroidismo.

Il gene coinvolto è l’oncogene RET e le mutazioni a suo carico conferiscono al recettore uno stato di attivazione costitutiva ligando-indipendente con conseguente proliferazione neoplastica [15]. MEN 2 si divide in due fenotipi: MEN 2A e MEN 2B.

La MEN 2A è causata da mutazioni puntiformi nel dominio extracellulare di RET che provocano una dimerizzazione e un’attivazione costante, rappresenta la forma più comune (>90% dei casi) ed è caratterizzata dall’induzione di carcinoma midollare della tiroide, tumori delle paratiroidi e, nel 50% dei casi, da feocromocitoma del surrene.

La MEN 2B è anch’essa caratterizzata da una mutazione puntiforme, ma sul dominio catalitico citoplasmatico di RET, alterando la specificità di substrato della tirosin-chinasi e causando quindi tumori della tiroide e delle surrenali, senza coinvolgimento delle paratiroidi.

La MEN 2B ha purtroppo un fenotipo molto severo, in quanto è a esordio precoce e con scarse possibilità di sopravvivenza; per l’effettiva gestione della patologia risulta essenziale la tiroidectomia [16,17].

I test genetici molecolari dovrebbero essere offerti quindi ai soggetti affetti da MEN 2 e a tutti i loro familiari [18,19].

Lo studio, attraverso specifici marcatori, delle sindromi ereditarie di cancro sopracitate avviene mediante i test genetici di suscettibilità, che possono individuare i soggetti portatori di una determinata alterazione genica che avranno una probabilità maggiore di sviluppare la neoplasia.

Questi test sono differenti da quelli genetici diagnostici, poiché non danno la certezza di avere o di sviluppare una patologia, ma ne indicano la percentuale di rischio d’insorgenza. Risulta illogico, perciò, pensare di sottoporre a test di suscettibilità genica soggetti sani e asintomatici nella popolazione generale e, tanto meno, pensare che questi test non abbiano un’importanza clinica. Infatti i suddetti test devono essere applicati con criterio, sottoponendovi solo i candidati che, dopo un’attenta consulenza genetica, dimostrino un’elevata suscettibilità familiare verso lo sviluppo di determinate neoplasie. È evidente quindi che non possono essere utilizzati come test di screening, a causa dell’elevata complessità e multifattorialità del cancro, del risultato probabilistico e quindi di basso rilievo clinico che forniscono e a causa del fatto che i soggetti positivi andrebbero incontro a disagio psicologico, potenziale perditadiprivacy, cambiamentinelle dinamichefamiliari, potenziale discriminazione genetica e aumento delle spese mediche per controllisupplementari e di sorveglianza [20-22].

D’altro canto è necessario evidenziare che la scoperta di mutazioni genetiche altamente correlate con il rischio di insorgenza di una neoplasia ha reso possibile intraprendere misure di profilassi che hanno notevolmente ridotto l’insorgenza di tumori: per le mutazioni del gene APC, attraverso misure chirurgiche di colonectomia [23], e per pazienti portatori di mutazioni in BRCA1/2 con misure di mastectomia e oforectomia [24]. Risulta evidente quindi come il test predittivo di suscettibilità genetica al cancro abbia molti aspetti benefici:

  • per un soggetto in cui viene riscontrata una mutazione deleteria nota, l’analisi verrà estesa ad altri membri della sua famiglia;
  • l’evidenza di una determinata mutazione può indirizzare il soggetto a una maggior controllo, come ad esempio colonscopia nella sindrome di Lynch [25], colonscopia o sigmoidoscopia a partire già dai primi 10 anni per il gene APC, mammografia associata a risonanza magnetica in soggetti portatori di mutazioni BRCA1/2 [26,27].

I test di suscettibilità genica permettono inoltre l’utilizzo di cure farmacologiche di nuova generazione per creare terapie personalizzate: soggetti con mutazione di BRCA con stadiazione della malattia tardiva possono essere eleggibili per trial che utilizzano gli inibitori PARP (poli ADP-ribosio polimerasi) (di cui fa parte anche BMN 673). Si tratta di molecole che bloccano il funzionamento di due enzimi, PARP 1 e PARP 2, la cui inibizione, in presenza di mutazioni, spinge le cellule tumorali alla morte.

In malattie oncologiche come la leucemia mieloide cronica, che nel 95% dei casi è associata a un’alterazione cromosomica [28], sono invece utilizzati i test citogenetici. Nella leucemia mieloide cronica si ha una traslocazione che interessa i cromosomi 9-22, in cui il segmento terminale (telomerico) del cromosoma 9, che codifica per il gene ABL, viene fuso con il segmento centrale (centromerico) del cromosoma 22, creando un gene ibrido ABL-BCR che dà origine a una proteina all’origine del meccanismo di trasformazione leucemica. La traslocazione porta alla creazione di un cromosoma 9 più lungo, il cromosoma Philadelphia.

Oltre a identificare l’associazione tra alterazione cromosomica e patologia, è importante analizzare la quantità di proteine codificate dal gene ibrido, per monitorare la risposta verso farmaci diretti contro queste, in pazienti sottoposti a terapia [29]. Quindi sono stati sviluppati test genetici associati alla scelta della terapia farmacologica: i test farmacogenetici. Tali test individuano farmaci da scegliere in base al quadro genotipico del soggetto in analisi e permettono ai clinici una facile correlazione tra variazioni interindividuali e farmaci adatti.

La farmacogenetica studia le variazioni genetiche individuali che danno luogo a differenti risposte all’assunzione del farmaco. Questo approccio è molto utile nella terapia oncologica, perché, tramite i numerosi studi di associazione tra genotipo e risposta farmacologica, è stato possibile attuare terapie personalizzate, evitando la scelta di regimi terapeutici inadatti, ricadute psicologiche negative del paziente stesso e l’esposizione a effetti avversi dovuti alla tossicità del farmaco.

Per il miglioramento degli approcci terapeutici in pazienti oncologici attraverso numerosi studi si è andati alla ricerca dei target contro cui il farmaco potesse agire per interferire con la replicazione della cellula tumorale, in modo da disegnare una terapia a bersaglio molecolare. I bersagli/biomarcatori più comuni che vengono ricercati includono: polimorfismi di un singolo nucleotide (SNP), inserzione nucleotidica, delezione, ripetizioni seriali, variazione del numero di copie e traslocazione cromosomica [30].

Un esempio chiave è costituito dalla ricerca di mutazione del gene KRAS in pazienti con cancro del colon-retto metastatico. In questo caso, i pazienti che non portano nessuna delle alterazioni del gene possono essere sottoposti a terapia con anticorpi monoclonali che sono rivolti a componenti cellulari che inducono la crescita e lo sviluppo delle cellule neoplastiche. In caso di mutazioni, invece, l’utilizzo di tali farmaci sarebbe inefficace.

La farmacogenetica, oltre a rivolgere la sua attenzione verso l’individuazione di bersagli molecolari delle cellule cancerose, è molto importante per la ricerca di variazioni genetiche del paziente che potrebbero interferire con l’azione del farmaco antitumorale aumentandone, ad esempio, l’effetto citotossico.

L’esempio più rappresentativo è quello del farmaco 6-mercaptopurine, usato per trattare leucemie e linfomi attraverso l’inibizione della sintesi di DNA nelle cellule tumorali. Normalmente l’enzima (TMPT) deputato all’eliminazione del farmaco dall’organismo riesce a svolgere questa attività, ma una sua alterazione provoca un aumento dei livelli del farmaco in circolo causando effetti tossici, come ad esempio la mielosoppressione [31]. L’alterazione di questo enzima è riconducibile a una mutazione del gene che codifica per l’enzima stesso, in particolar modo tali mutazioni determinano tre varianti che riducono in modo drammatico l’attività dell’enzima, aumentando i livelli del farmaco e provocandone una tossicità severa [32,33]. La FDA raccomanda pertanto di eseguire test genetici per evidenziare queste alterazioni che potrebbero ridurre l’attività dell’enzima del 95% prima di iniziare la somministrazione del farmaco.

Luca Sorino – Dipartimento di Scienze Psicologiche Umanistiche e del Territorio, Università degli Studi G. D’annunzio, Chieti



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